La liturgia della parola di questa domenica ci propone tre temi: nella prima lettura la conversione, nella seconda lettura la sofferenza e nel vangelo Gesù come porta e pastore.
Prima lettura (At., 2, 14. 36-41)
Il primo versetto è il versetto 14, che abbiamo letto e commentato domenica scorsa.
Gli altri versetti dal 36 al 41 sono il proseguimento della “predica” tenuta da Pietro nel giorno della Pentecoste, che affronta più argomenti.
Nella prima lettura di oggi ne affronta due:
- Dio stesso ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso (2, 36).
- per tutti rimane la possibilità di pentirsi, di convertirsi e di ricevere il perdono e lo Spirito Santo, secondo la promessa (2, 38-39).
Con certezza
Pietro dice a voce alta: Sappia con certezza tutta la casa di Israele (2, 36).
Luca sottolinea sempre che quanto egli scrive è certo, è sicuro.
L’avverbio qui usato da Luca, certamente, sicuramente (asfalòs), si ritrova, come sostantivo, nel prologo del vangelo dello stesso Luca:
anch’io ho deciso […] di scriverne un resoconto ordinato per te, caro Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità [asfàleia: certezza] degli insegnamenti che hai ricevuto (Lc., 1, 3-4).
Pietro, riprendendo qui il termine certezza (asfàleia), vuole che con certezza sia ben noto a tutta la casa d’Israele che il Padre ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso.
Già durante la sua vita terrena, Gesù è da Luca presentato come Signore e Messia: discorso nella sinagoga di Nazaret (Lc., 4, 18-21) e trasfigurazione sul monte (Lc., 9, 28-36).
Che cosa dobbiamo fare?
Ascoltato tutto il discorso, non soltanto le ultime parole che dichiarano la loro responsabilità nell’uccisione di Gesù, gli Israeliti si sentono trafiggere il cuore.
Le parole di Pietro raggiungono il loro cuore e chiedono a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? (2, 37).
Chiamare fratelli coloro che stanno parlando, che li stanno dichiarando responsabili della morte di Gesù, mostra che essi hanno ben compreso che possono essere perdonati e che davvero si è aperta per loro la possibilità di cambiare modo di pensare (metanoèin).
Convertitevi: cambiare mente, cambiare strada
Pietro va ora dritto al punto cruciale: convertitevi (2, 38).
Alla domanda dei suoi ascoltatori, senza esitazione, Pietro risponde con l’invito alla conversione, a cambiare mente, a cambiare modo di pensare, come indicano sia il verbo greco utilizzato da Pietro, metanoèin, sia il sostantivo corrispondente metànoia: metà (cioè “oltre”), e nous (“mente”).
Domenica scorsa per i due discepoli di Emmaus Luca ha utilizzato il verbo upostrèfo (cambiare strada); Pietro usa qui il verbo metanoèin (cambiare mente): sono questi i termini usati dal Nuovo Testamento per dire convertirsi.
Come segno di conversione Pietro li invita a farsi battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e a ricevere il dono dello Spirito Santo (2, 38).
È la prima volta che nel Nuovo Testamento viene menzionato il battesimo nel nome di Gesù Cristo: chi invoca il nome di Gesù come Signore e si affida a lui, riceve, nel battesimo, il perdono e il dono dello Spirito Santo.
Pietro evoca la promessa fatta agli Israeliti, ai loro figli, ma anche a quelli lontani, senza dimenticare quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro (2, 39): attraverso queste parole Pietro chiaramente afferma che anche i responsabili della morte di Gesù possono essere accolti nella comunità dello Spirito, secondo la richiesta dello stesso Gesù appeso al legno: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc., 23, 34).
Pietro annuncia ciò che viene dall’alto nel nome di Gesù Cristo ed è dono dello Spirito Santo, ma vuol far comprendere ai suoi ascoltatori che la decisione spetta anche a loro.
Seconda lettura (1Pt., 2, 20-25)
La seconda lettura è una parte del secondo capitolo della prima lettera di Pietro riguardante la condizione e i doveri degli schiavi.
Le parole rivolte a loro sono, però, riferibili a ogni cristiano.
Sopportare la sofferenza come fece Cristo
L’autore che riporta la predicazione di Pietro, vuole rivolgersi a chi, facendo il bene, incontra delle sofferenze.
Il verbo usato è sopportare (upoméno), rimanere sotto, nel senso di qualcosa di cui dobbiamo subire il peso ed anche nel senso di perseverare.
L’immagine è quella della pietra che viene calpestata, tenuta sotto il piede, ma che non viene scalfita e resiste a ogni peso.
L’invito a sopportare le sofferenze, che per noi moderni ha un sapore di masochismo e di correlativo sadismo, nel Nuovo Testamento è sempre “motivato” con il riferimento a Cristo: Cristo patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme (2, 21).
Ripercorrendo il quarto canto del Servo sofferente di Isaia (Is., 53, 7-10), l’autore della lettera descrive Gesù sofferente, prima e durante la sua Passione, come abbiamo meditato il Venerdì Santo.
Questo è l’esempio lasciato da Cristo ai suoi discepoli: il cristiano è chiamato a guardare a lui quando si trova a soffrire per causa sua o per causa di altri.
Per divenire gregge custodito
Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime (2, 25).
Proseguono i riferimenti all’Antico Testamento: l’ultima frase della lettera, che fa da ponte con il vangelo di oggi, rimanda a più testi: al salmo 23, a Geremia (23, 1-4), a Ezechiele (cap. 34), a Zaccaria (11, 14-17).
La mancanza del pastore rende le pecore erranti (planào): eravate erranti come pecore (1Pt, 2, 25).
Le pecore in balia di se stesse, senza un punto di riferimento, sono soggette ad errare, sia nel senso di vagare che di sbagliare.
Rivolgendosi ai suoi ascoltatori, Pietro prosegue: ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime: per merito di ciò che Cristo ha detto e fatto, si sono convertiti, hanno cambiato mente e strada (Pietro utilizza il verbo epistrèfo, che significa sia cambiare mente che cambiare strada). Sono stati ricondotti al loro pastore (in greco poimèn), al loro custode (in greco epìskopos), colui che sorveglia, che si prende cura di loro.
Il gregge è custodito da colui che è il punto di riferimento, colui che è da seguire.
Vangelo (Gv., 10, 1-10)
In questa domenica, detta del buon pastore, leggiamo la prima parte del capitolo 10 del vangelo di Giovanni, che segue il racconto della guarigione del cieco dalla nascita che abbiamo letto nella IV domenica di quaresima.
Dopo la narrazione della guarigione del cieco nato, Gesù racconta la parabola del buon pastore.
La porta
Gesù precisa subito che nel recinto delle pecore si entra dalla porta e che non bisogna salire (anabàino) da un’altra parte. Il verbo usato da Giovanni evoca il gesto dello “scavalcare” il muro.
Entrare in questo modo nel recinto è proprio dei ladri e dei briganti, come chiaramente afferma lo stesso Gesù: il pastore delle pecore entra dalla porta (10, 2).
L’introduzione alla parabola propone un’immagine chiara e semplice: solo chi entra nell’ovile attraverso la porta può essere considerato il pastore.
Ad accogliere il pastore c’è il guardiano: il termine greco usato da Giovanni è portiere (con esplicito riferimento alla porta), il quale gli apre sempre la porta, sapendo che le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce (10, 4).
Il pastore
Il pastore chiama ciascuna delle sue pecore per nome e le conduce fuori (10, 3).
Gesù descrive il rapporto tra il pastore e le sue pecore come una relazione personale, che offre alle pecore protezione, ma soprattutto considerazione.
Il pastore, quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce (10, 4).
La parabola inizia facendo riferimento ai ladri e ai briganti, che cercano di entrare nel recinto scavalcando il muro e si conclude con l’estraneo. L’estraneo che le pecore non seguono e dal quale fuggono: l’estraneo qui menzionato è colui che non bisogna seguire e dal quale bisogna fuggire.
Al centro della parabola c’è invece la figura del pastore, di colui che va seguito e ascoltato.
Io sono la porta delle pecore
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro (10, 6).
A fronte di questa difficoltà, Gesù spiega la similitudine e lo fa con una dichiarazione solenne: in verità, in verità io vi dico (10, 7). Gesù cerca di insegnare ai suoi a distinguere tra i buoni e i cattivi pastori, tra i pastori e il Pastore, e questo insegnamento rimane valido, permanente, per i discepoli di tutti i tempi.
Ciò che più sta a cuore a Gesù è arrivare a dire chiaramente ai suoi: Io sono la porta delle pecore (10, 7).
Gesù è il pastore, ma è anche la porta, l’accesso all’ovile.
Gesù è colui che ha pieno accesso alla autentica vita umana: se qualcuno desidera avere accesso a questa piena autenticità, deve passare attraverso di lui.
La forma intrinseca di ogni realtà cristiana è Gesù stesso. Chi vuole parlare a una persona in modo da giungere là dove maturano le decisioni fondamentali, deve andarvi attraverso Cristo […]. È Cristo che deve parlare, non il suo proprio io […]. E anche, affinché l’espressione intorno alla porta mantenga tutta la sua forza, il Signore dichiara: Tutti quelli che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati (Gv., 10, 8). La frase suona terribile. Tutti, all’infuori di lui, ladri e briganti! Nulla ottiene riconoscimento. Saggezza, bontà, prudenza, pedagogia, misericordia umane: tutto spazzato e gettato da parte (R. Guardini, Il Signore, p. 216).
Questo modo di dire le cose da parte di Gesù è estremo, ma efficace.
Questo modo tagliente non vuole non riconoscere quanto di buono lo ha preceduto, nell’Antico Testamento, e quanto di buono lo segue nel Nuovo Testamento, ma vuole dirci che ogni parola buona, ogni opera buona, trova pienezza e compimento in lui: Io sono la porta. Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo (10, 9).
Con un linguaggio radicale che a noi pare troppo radicale, Gesù vuole metterci in guardia dal rischio di fare scelte sbagliate, rischio sempre possibile.
Egli insiste, proprio nei due punti strategici della parabola, quello iniziale e quello finale, sul modo sbagliato di entrare nell’ovile scavalcando il muro e insiste sul rischio di seguire l’estraneo, nel senso di colui che inganna e fa percorrere vie sbagliate.
Gesù utilizza le due immagini del pastore e della porta per mettere in guardia i suoi ascoltatori dai falsi pastori e dalle false porte.
La porta di cui Gesù parla è accesso alle autentiche realtà umane, nel tempo che va dalla sua ascensione al suo ritorno, nel tempo della storia, nel tempo della Chiesa, ma è soprattutto accesso alla vita eterna (Gv., 6, 68), fin da ora.
Alcune sottolineature
- Conversione.
Le domeniche dopo Pasqua ci invitano a cogliere l’inseparabile legame tra risurrezione e conversione, tra alzarsi, rinascere, ricominciare da una parte e cambiare mente, cambiare strada, fare una inversione di marcia dall’altra, inseparabilmente.
- Il buon sacrificio e il cattivo sacrificio.
Nella seconda lettura di oggi Pietro invita a sopportare con pazienza la sofferenza e aggiunge: Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio.
Al Getsemani Gesù prega: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice (Mt., 26, 39).
Gesù non è masochista e il Padre non è sadico.
In alcune epoche storiche e in alcune correnti spirituali, essere discepoli di Gesù è stato eccessivamente considerato come sacrificio, croce, mortificazione, rinuncia.
A questo modo di vedere la vita cristiana, la esortazione apostolica Evangelii gaudium sulla santità nel mondo contemporaneo propone un robusto correttivo.
La sofferenza (EG, 125) ha certamente per il cristiano un valore salvifico ed è gradita a Dio, ma non in quanto offerta a Dio di una sofferenza che in quanto tale piacerebbe a Dio, lo placherebbe, espierebbe le colpe, ci farebbe acquistare meriti; ma per il modo con cui Gesù l’ha affrontata e portata, continuando ad amare Dio e gli uomini, anche i suoi crocifissori, che dalla croce perdona. Gesù testimonia così non un Dio violento, vendicativo, punitivo ma un Dio di misericordia e di perdono, anche a prezzo della sua vita. Croce, quindi, non come sacrificio fine a se stesso, ma come vita donata, manifestazione dell’amore di Dio, che in Cristo ci ha amato fino alla fine (Gv., 13, 1), che significa fino all’estremo.
- Chiama le sue pecore ciascuna per nome.
Il rapporto tra il pastore e le pecore è una relazione personale ed unica, in cui ognuno è chiamato per nome. Chiamare per nome è una indicazione a trovare modalità di rapporto diverse da quelle di una eccessiva globalizzazione e di una eccessiva massificazione, una indicazione, per quanto possibile, a trovare rapporti umani e personali buoni. Quante volte sentiamo dire: Il mondo funziona così e ci si deve adeguare!
- Ascoltano la sua voce.
Ancora una volta ci viene insistentemente ricordato che discepolo di Gesù è colui che ascolta la voce / parola del Maestro: La fede nasce dall’ascolto (Rom., 10, 17).
- Entrare.
Il pastore entra dalla porta, entra in mezzo al gregge, entra in contatto con le pecore. Gesù non ha esitato ad abbassarsi (kenòo, Fil., 2, 7), entrando in contatto con le fragilità e le ferite dell’uomo.
I vangeli traboccano di verbi come vedere e toccare che mostrano la scelta di Gesù di entrare in contatto: entrare nella vita dell’uomo, anche dove c’è il buio, anche dove la polvere rende tutto opaco.
- Le conduce fuori.
Il recinto delle pecore è un luogo sicuro, ma anche un luogo chiuso.
I recinti possono assomigliare al cenacolo in cui gli apostoli si nascondono per timore dei giudei.
Il pastore entra nel recinto per condurre fuori: non conduce ad un altro recinto o a un altro luogo troppo sicuro, ma fa attraversare spazi aperti, conduce a pascoli liberi, in cui bisogna trovare la giusta misura tra una autentica libertà e il rischio sempre presente di perdersi.
Gesù pastore si fida di ogni pecora e del gregge e investe su ciascuno e sulla comunità.
- Le pecore lo seguono.
Gesù offre ad ogni discepolo la sequela, la proposta di mettersi dietro a lui, di seguirlo anche nel suo modo di essere leader, servendo e non dominando.
Ad ogni discepolo Gesù chiede di essere testimone della sua esperienza di fede e non di essere “guide” o “capi” che si impongono agli altri.
- Ladri e briganti.
I ladri e i briganti sono coloro che non si prendono cura delle pecore né del gregge.
Il rapporto personale di Gesù con ciascuno dei suoi discepoli non preserva dal pericolo: la libertà è un rischio, la si acquista e la si mantiene attraverso l’ascolto assiduo, costante, perseverante (At., 2, 42) della Parola.
Gesù invece chiede ai suoi discepoli di fidarsi di lui, di lasciarsi condurre: è lui la porta, è lui il pastore, cioè l’unico che può pienamente condurli a quella vita umana autentica come fin dall’inizio il Padre l’ha pensata.
Per il buon pastore (Gv., 10, 11) noi non siamo una massa, ci conosce e ci interpella individualmente, ci chiama per nome e noi conosciamo la sua voce:
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. (Gv., 10, 14-15).
Tutto questo fa parte della storia di ogni discepolo: nulla di appariscente o di straordinario. Gesù non è un estraneo, né uno di passaggio.
I discepoli conoscono la sua voce perché si prende cura di loro, li orienta e li sostiene, senza scavalcare o abolire la responsabilità di ognuno.
Suggerimenti
Celebrazione
Potete partecipare alla Messa celebrata dal papa, dal vescovo diocesano o da un sacerdote in altra chiesa.
Segni
Scegliere una porta della casa e mettervi un cartello con la scritta: Io sono la porta; oppure una immagine o una icona del Buon Pastore.
Per la preghiera
Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Apocalisse, 3, 20).
Padre nostro, il tuo amore è per ognuno e per tutti.
Noi ti rendiamo grazie per Gesù, il tuo Figlio amato
che ci hai mandato come pastore
per riunire tutti i tuoi figli dispersi dall’egoismo e dal male.
Padre nostro, noi ti ringraziamo per la vita,
per la morte e per la risurrezione di Gesù.
È lui che ci libera e ci fa passare
dal male al bene,
dalle tenebre alla luce,
dalla morte alla vita.
Noi ti rendiamo grazie per la speranza
di essere resi simili a lui
e di vederlo un giorno tornare nella gloria.
Padre nostro, ti rendiamo grazie per lo Spirito Santo
che è sempre all’opera in mezzo a noi.
Egli susciti nella Chiesa
pastori per il nostro tempo: catechisti, educatori, religiosi, diaconi e preti
che sappiano far correre la tua voce
perché gli uomini possano conoscere e seguire il Buon Pastore.
Per l’approfondimento
Gaudete et exultate. Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Roma 2018.
- Guardini, Il Signore. Meditazioni sulla persona e la vita di Nostro Signore Gesù Cristo, Milano-Brescia 2005, Il Figlio dell’uomo, pp. 213-218.